Uno dei temi cari alla teologia queer è non solo l’identità di genere (e orientamento sessuale) di Gesù, ma anche (e più radicalmente) il tema del “genere di Dio”: è maschio? Femmina? O altro?
Un tema non solo “specialistico” ma che tocca anche la vita delle chiese cristiane: lo scorso anno la Chiesa Evangelica Luterana svedese ha aggiornato le proprie linee guida chiedendo al suo clero di utilizzare un linguaggio gender neutral in riferimento all'Ente Supremo, al quale non ci si dovrà più rivolgere al maschile; ma anche nella Chiesa Cattolica sono in atto da un po’ di tempo a questa parte dei tentativi di integrare l’immagine maschile di Dio (il 10 settembre 1978 Papa Giovanni Paolo I parlò di Dio come “madre”).
Il gender: di cosa parliamo?
Negli ultimi anni, attorno alla questione del gender si sono purtroppo addensati pregiudizi e paure che ne hanno completamente traviato il senso. E così da termine “neutro” e per addetti ai lavori è divenuta parola calda (se non bollente) da sbandierare a destra e a manca come spauracchio di fantomatiche trame di improbabili lobby gay. Vorrei fare, dunque, un po’ di chiarezza prima di addentrarmi nell’argomento di questo mio contributo.
Nel primo capitolo del recente saggio Sguardi sul genere. Voci in dialogo (un testo che consiglio caldamente a chi voglia acquisire conoscenze scientifiche aggiornate sul tema) Federico Ferrari, Enrico M. Ragaglia e Paolo Rigliano scrivono: “Per genere l’intera comunità scientifica mondiale intende l’insieme delle differenze tra uomini e donne, che ogni società costruisce a partire dalla propria concezione delle differenze tra corpo maschile e femminile. Tali differenze consistono in tutti quei processi – psichici, interpersonali, comportamentali e di presentazione di sé – con i quali le società trasformano i corpi sessuati (maschio/femmina/intersessuale) in identità personali socialmente riconosciute (uomo/donna) e organizzano la divisione dei ruoli e dei compiti tra donne e uomini, differenziandoli dal punto di vista sociale l’uno dall’altra.” (A cura di Paolo Rigliano, Sguardi sul genere. Voci in dialogo, 2018, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, p. 24).
Già da questa prima citazione emerge chiaramente come la dimensione sociale e culturale siano radicalmente coinvolte qualora si parli di “genere”.
E infatti, gli autori, poco sotto, aggiungono: “Se il sesso non è determinato dalla cultura umana ma dalla biologia, il genere a sua volta non è determinato dalla biologia ma dalla cultura (…) Il genere, quindi, non è qualcosa di innato alla persona, non è una conseguenza obbligata e una naturale manifestazione del sesso biologico, corporeo fisico – maschile o femminile che sia – quanto, invece, il complesso di modelli socialmente precostituiti, esterni, in cui si imbatte l’individuo, che è chiamato ad assumerli in sé, a farli suoi e incarnarli.” (ibidem, pp. 24-25).
Al capito terzo dello stesso saggio, Federico Ferrari specifica: “Parlando di genere, ci riferiamo ad un sistema di organizzazione dell’umano (mentale-culturale-sociale) intorno all’idea della differenza sessuale.” (ibidem, p. 122).
Il “genere”, quindi, è sia un modello interpretativo della differenza sessuale (grazie al quale una società dà senso ai corpi) sia un nodo attorno al quale una società organizza se stessa; un sistema organizzativo. O forse, più radicalmente (come dimostra il capitolo 2 dell’antropologo Francesco Remotti) potremmo dire che il modo in cui una società interpreta la differenza sessuale determina il suo sistema organizzativo rispetto ai ruoli di genere. Afferma, infatti, l’antropologo: “I generi, costrutti sociali, sono guide, di cui le società non possono fare a meno per orientare le scelte e indirizzare i comportamenti degli esseri umani al loro interno. Tutta questa argomentazione si basa su un presupposto: ossia che gli esseri umani, anche per diventare uomini e donne hanno bisogno di guide, di modelli, di insegnamenti, ovvero, non si diventa uomini e donne in maniera del tutto e semplicemente naturale. Noi apparteniamo infatti a una specie culturale, anzi iper-culturale; e questo significa che per molti aspetti dell’organizzazione della nostra vita dobbiamo fare contro non tanto (o non soltanto) sulle informazioni genetiche contenute nel nostro DNA, quanto piuttosto sulle informazioni culturali che ogni società è tenuta a provvedere.” (ibidem, pp. 94-95).
Gli studi di genere.
Entrano qui in campo i cosiddetti gender studies (per un loro approfondimento rimandiamo alle pagine 130-139 dell’opera citata).
Gli “studi di genere” (gender studies appunto) rappresentano un approccio multi- e interdisciplinare allo studio dei significati socio-culturali della sessualità e dell'identità di genere. Nati in Nord America alla fine degli anni ‘70 dello scorso secolo nell'ambito degli studi culturali, si diffusero poi in Europa negli anni ‘80.
La loro origine è da individuarsi nel femminismo, che, dopo una prima fase politica focalizzata sulla rivendicazione dei diritti, spostò la propria attenzione anche a un piano più culturale, per criticare il modello patriarcale delle società occidentali, origine delle disparità di genere. A cavallo tra il XX e XXI sec. la sua riflessione si ampliò ulteriormente, dando origine al cosiddetto “femminismo della differenza” che portò l’attenzione sulla molteplicità: non esiste “la” donna, ma esistono “le” donne, diverse donne (e diversi modi di essere donne). Questo allargamento diede un grande impulso alla riflessione sul genere e incluse anche il pensiero (e l’esperienza) di donne lesbiche e transgender. Spunti fondamentali di tutte queste riflessioni sono da ritrovare sicuramente nel post-strutturalismo e decostruzionismo francese (soprattutto Michel Foucault e Jacques Derrida) e anche negli studi che uniscono psicologia e linguaggio (Jacques Lacan e, in una prospettiva postlacaniana, Julia Kristeva).
Parallelamente, sul versante psicologico e sessuologico, le ricerche scientifiche portarono l’attenzione della società accademica su temi finora marginali o patologizzati (quali l’omosessualità, l’intersessualità e la transessualità) fino all’introduzione, negli anni ’80, di corsi universitari specifici su questi argomenti, passati sotto il nome di Sexuality and LGBT Studies.
Negli anni ’90 dello scorso secolo sono infine sorti i Queer studies che hanno avuto il merito, tra le varie cose, di tenere alta l’attenzione sul rischio, sempre presente in ogni categorizzazione, di emarginare, tralasciare o addirittura negare soggettività impreviste.
Una questione anche teologica.
Il tema del “genere” (nelle sue implicazioni socio-culturali) divenne tema anche teologico soprattutto grazie alla teologia queer. Sorta intorno agli anni ’90 dello scorso secolo come sviluppo delle teologie della liberazione, femminista e gay/lesbica e sulla base dei Gender Studies e gli studi di Michel Foucault sulla sessualità.
Letizia Tommasone, teologa e pastora valdese, scrive: “la teologia queer fa propria l’analisi di Michel Foucault che declina le identità sessuali come una costruzione culturale continuamente ridefinita tramite il discorso sociale (…) La teologia queer mette in questione il binarismo della morale e l’eterosessualità obbligatoria promossa dal cristianesimo”. (ibidem, p. 169).
E la teologa queer Marcella Althaus-Reid specifica che: “occorre una interrogazione deliberata dell’esperienza e del pensiero eterosessuali che hanno dato forma ai nostri concetti di teologie, di ermeneutica e del ruolo di chi fa teologia; questo processo non solo ci richiede onestà e coraggio, ma anche un impegno di dialogo critico con la teoria queer, con la teologia non-eterosessuale e con la teologia eterosessuale critica. (A cura di G. Gugliermetto, Marcella Althaus-Reid, Il Dio queer, 2014, Torino, Claudiana, p. 47).
Se, infatti, la teologia è riflessione (culturale) sulla fede e il “genere” è intrinsecamente legato (e determinato) dalla cultura di appartenenza, ne va di conseguenza che anche la teologia sia condizionata dal sistema di organizzazione dell’umano attorno alla differenza sessuale proprio della società in cui si colloca e in cui nasce. E la società occidentale presenta una forma organizzativa che alcuni studiosi definiscono “patriarcale” e altri maschilista ed eteronormativa.
Da qui l’urgenza di portare alla luce queste strutture culturali presenti anche nella occidentale teologia tradizionale, e che finora non sono stati tematizzati né vagliati criticamente, ma che hanno operato, creando oppressione, esclusioni e condanne nelle chiese (e anche nella società), per smontarne l’ovvietà, criticandone alla radice l’impianto teorico ideologico.
I generi di Dio.
Di qui il bisogno di essere, dunque, davvero radicali nel pensiero teologico e di interrogare ciò che non era mai stato finora indagato; o meglio di passare al vaglio della critica teologica ciò che per secoli si era dato per scontato dalla cristianità: cioè che Dio sia maschio (Padre).
Al capitolo 6 del saggio Trans/formations, B. K. Hipsher, teologa e pastora della Metropolitan Community Churches (MCC), scrive: “L’identificazione di Gesù col genere maschile e il suo riferirsi a Dio chiamandolo Padre sono serviti a costruire una immagine di Dio come maschio”. (Edited by Marcella Althaus-Reid and Lisa Isherwood, Trans/formations. Controversies in Contextual Theology, 2009, London SCM Press, p. 93).
Potrebbe sembrare un’osservazione marginale. Ma la teologa spiega che: “questa immagine patriarcale di Dio ha avuto lo scopo di rinforzare le strutture di potere ecclesiale e sociale che privilegiano gli uomini rispetto alle donne”. (ibidem, p. 93).
Non solo. Dio Padre ha anche assunto delle caratteristiche molto specifiche anche rispetto al maschile: non è infatti simile a un qualsiasi uomo, ma a un tipo particolare di maschio. Specifica la Hipsher: “Nelle società occidentali è: l’uomo bianco, maschio, eterosessuale, istruito, medio-borghese, senza handicap fisici e/o problemi mentali ed emotivi.” (ibidem, p. 94). Da qui ne viene l’espulsione e/o marginalizzazione di tutti/e coloro che non sono conformi a questa immagine di Dio.
Per questo già altre correnti teologiche (in particolare la teologia femminista) avevano criticato il modello patriarcale soggiacente al cristianesimo, per proporre un’immagine alternativa di Dio: Dio come donna. Una proposta che però ci appare ancora parziale in quanto, da una parte, mantiene e rinforza il binarismo di genere (maschio/femmina) e dall’altra non passa al vaglio della critica un altro elemento importante del modello patriarcale: l’eterocolonialismo.
Da qui la proposta di alcuni teologi (specie gay) di smontare anche il presupposto eterosessuale dall’immaginario di Dio, indagando sull’identità di genere e orientamento sessuale di Gesù.
Un dio trans.
Ma, come annota la Hipsher: “non è sufficiente includere l’identità omosessuale e l’espressione sessuale in una imago Dei allargata. Dobbiamo essere a tal punto critici da rendere possibile l’inclusione di ogni espressione umana in ogni sua gamma e fluidità della sessualità umana così da abbracciare la riassegnazione del sesso sia chirurgica che ormonale”. (ibidem, p. 97)
Ed ecco dunque la proposta di un Trans-God. Scrive la teologa: “Sono convinta che abbiamo bisogno di immaginare Dio dentro ogni realtà cangiante, fluida, diversa, molteplicemente transgender che è propria degli esseri umani (…) Abbiamo bisogno di un Dio-trans che trasgredisca tutte le idee che abbiamo su chi è Dio o cosa possa essere, che ci trasporti verso nuove possibilità che ci permettano di vedere Dio incarnarsi nella molteplicità dei corpi umani, che trasfiguri le nostre immagini mentali e le liberi dai propri limiti, che trascenda tutto ciò che noi sappiamo o pensiamo di sapere su Dio e sull’umanità come imago Dei”. (ibidem, p. 99).
Il Dio-Trans diviene, quindi, la cifra, da una parte, per includere ogni essere umano nella varietà delle sue identità e manifestazioni (anche sessuali); dall’altra, per impedire, grazie alle sue continue transizioni, ogni rischio di fossilizzazione che lo riduca ad una effimera proiezione di sé.
Una questione “politica”, oltre (e forse più) che teologica.
Per chiudere vorrei fare una precisazione molto importante.
Nella teologia queer, quando usiamo il temine Dio, non intendiamo affatto riferirci a una persona o un essere supremo esistente di per sé prima di ogni cosa e dotato di individualità (con tanto di intelletto, volere, potere, ecc) che avrebbe creato il mondo dal nulla ai primordi del tempo e lo governerebbe con sapienza e giustizia dall’alto dei cieli.
Nient’affatto!
La teologia queer, piuttosto, pone sotto le forche caudine della dura critica l’immagine di Dio che la teologia tradizionale ci ha tramandato (e continua a spacciare) come se fosse quella vera (anzi: l’unica vera). Questa immagine ha fatto (e sta facendo ancora) troppi danni; non solo ai credenti ma all’intera umanità. È, quindi, giunto il momento di prenderla
duramente a bastonate fino a massacrarla, ridurla in frantumi, così da sbarazzarcene una volta per sempre.
L’intento, quindi, della teologia queer, quando parla del Dio-trans, non è primariamente teologico: non sta professando la fede in un fantomatico Dio-trans. Il suo intento è “Politico” (con l’iniziale maiuscola): sta, cioè, prendendo sul serio il carattere performativo del linguaggio (e dell’immaginario) religioso e, conscia dei danni che certe immagini hanno fatto alla società, rivendica l’urgenza di una nuova categoria omni-inclusiva di ogni forma di umanità nel discorso teologico, se la teologia cristiana vuole davvero seguire ed essere fedele al messaggio evangelico.
Infatti, la Hipsher conclude il suo contributo dichiarando che “questa immagine di Dio come trans ci dà la possibilità di riconoscere, apprezzare e rispettare la presenza cristica in ogni essere umano”. (ibidem, p. 100).
Al contrario, quando Dio viene ingabbiato in una identità mono-genere (maschio/femmina) con uno specifico orientamento sessuale (eterosessuale/omosessuale), ogni umanità che è altra, difforme e non conforme viene esclusa ed espulsa (come accade nelle chiese conservatrici) o al massimo tollerata, ma solo se si conforma al modello culturale dominante; ed è quanto avviene - scrive sempre la Hipsher - in alcune chiese cristiane più aperte che accolgono noi persone LGBT+ ma pretendono che ci sposiamo o viviamo in coppia (secondo il modello di coppia eterosessuale) o che ci vestiamo in modo decente, oppure che evitiamo di parlare pubblicamente delle nostre identità o comportamenti sessuali non conformi.
Dunque, dichiarare che Dio è trans significa fare un atto politico (prima che religioso) per schierarsi dalla parte di tutte quelle minoranze che ancora oggi vengono discriminate e oppresse (anche da certe frange del movimento femminista e dei gruppi gay/lesbici) e per opporsi all’omologazione capitalistica, maschilista, eteronormativa e binarista.
Termino con una citazione di Marcella Althaus-Reid: “Molti anni fa, le teologie della liberazione iniziarono a essere sospettose delle definizioni ideologicamente determinate riguardo a che cose è la teologia o a chi è un teologo. In quel momento si diceva che il teologo è un operaio o un minatore che cercano di discernere la presenza di Dio in una comunità oppressa politicamente ed economicamente (…) Ma non venne in mente ai teologi della liberazione che era necessario smantellare l’ideologia sessuale della teologia (…) Nessuno pensava a fare teologia nei bar gay (…) La teologia queer ha portato le teologie contestuali verso nuovi confini, costruendo alternative di pensiero che sono anche sessuali e politiche. (A cura di G. Gugliermetto, Marcella Althaus-Reid, Il Dio queer, 2014, Torino, Claudiana, pp. 46-47).
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